Azione e/o contemplazione (seconda parte)

Azione e/o contemplazione (Segue) (SEMI n. 226, Giugno 2020,  In società on Dio)

Facciamo un bilancio sulle nostre prime riflessioni. Il valore aggiunto legato ad un oggetto sta nella sua capacità, attraverso una certa organizzazione della sua materia, di mettere in comunione delle persone, comunione che è l’obiettivo ultimo di tutti i nostri desideri: l’artista realizza e, contemporaneamente, rivela questa comunione e in ciò avrà contribuito alla felicità di coloro che fruiscono della sua opera.

 

Quello che dà il valore all’opera dell’artista definisce anche ciò che io posso, per rendere felice il malato in un letto di ospedale: non portargli cure – l’infermiere lo farà meglio di me – o belle esortazioni alla pazienza – eccellenti libri potrebbero farlo -, ma portargli il valore aggiunto, di cui si suppone io sia portatore.

 

Ma abbiamo visto che il valore aggiunto, proprio perché aggiunto, non è questione di buona volontà: si riceve dall’alto, è una grazia. E anche se non è per nulla legato al suo talento, l’artista ne gode e ne fa approfittare gli altri, coltivandolo. Ma coltivare non è sfruttare e un’artista non è un mercante di quadri; e anche se deve pur vivere, in prima istanza non è per vendere che dipinge. Al diavolo le buone azioni “per fare del bene!” Esse faranno del bene, soltanto se non cercheranno di farne!

 

Facciamo un passo in più, un passo esplicitamente cristiano. Abbiamo sottolineato che il segreto dell’artista era quello di introdurre un certo ordine nelle cose, di rivelare, nella materia, il Verbo nascosto. Il Verbo non è una struttura inerte nascosta nelle cose e che occorre semplicemente svelare; il Verbo non è qualcosa di cui si parla, ma qualcuno che mi parla e quando il Verbo prende carne, si chiama Gesù: il valore aggiunto sarà esattamente misurato dal suo rapporto con Gesù. C’è un prima e un dopo Gesù Cristo nella storia del mondo, secondo se si ha o no questa chiave che permette di riconoscere quello che vale o non vale per rendere felice, e dunque di riconoscere quello che vale o, molto semplicemente, quello che non vale. Questo è il segreto dei contemplativi:

 

Madre mia, dopo che ho capito che mi era impossibile fare niente da me stessa, il compito che mi avete imposto non mi sembrò più difficile, ho sentito che l’unica cosa necessaria era di unirmi sempre più a Gesù e che “il resto mi sarebbe stato donato in sovrappiù” (Teresa del Gesù Bambino, Storia di un’anima, cap. 9).

 

Di per sé, questa scoperta dovrebbe consacrare il suo autore modello e dottore dei contemplativi. Chi ha mai osato dire, con tanta semplice fermezza che la parte dell’uomo nell’azione è la contemplazione? Che si unisca sempre più a Gesù: il resto, cioè l’azione stessa, gli sarà dato in sovrappiù! Superando così di molto il famoso “Contemplata aliis tradere” (= dare agli altri quello che si è contemplato), siamo portati tramite questa umile monaca, o piuttosto tramite lo Spirito Santo che l’anima, alla sorgente stessa dell’essere e dell’agire (André Combes, Theresiana).

 

 

Rivelare il Verbo nascosto: ecco quello che io posso per il mio amico malato e questo non dipende da me. O piuttosto, dipende da me, per riprendere Teresa, «di unirmi sempre più a Gesù» come si collega un canale ad una sorgente, così l’acqua che lascio entrare potrà, grazie a me, irrigare più lontano, pur senza alcuna produzione da parte mia.

 

Il contemplativo, recettore e trasmettitore del Verbo

 

Ogni lettore di Giovanni della Croce conosce l’immagine del vetro esposto al raggio del sole, illustrando la trasformazione in Dio dell’anima che è a lui unita: l’anima diventa Dio come il vetro diviene luce, anche se il vetro e la luce restano distinti in ordine alla loro natura. Giovanni della Croce arriva a due conclusioni: «questo vetro sembra il raggio stesso e dà la stessa luce del raggio» (Monte Carmelo, II, 5). Sembrare, in spagnolo parecer, deve essere inteso in senso molto attivo: non una semplice rassomiglianza tra il vetro e la luce o tra l’anima e Dio, ma laddove si trova il vetro, la luce scaturisce e laddove si trova l’anima, Dio erompe. Ecco come il contemplativo, in proporzione alla sua unione con Dio, ogni volta riceve ed emana il Verbo, e con tanta minor dispersione quanto più gli sarà unito.

 

Peraltro, poiché questo vetro sembra il raggio, il vetro stesso tende a sparire: l’unione è trasparenza e il contemplativo non si preoccupa di esserlo, proprio come il miglior vetro è quello che si vede meno, ci dice ancora s. Giovanni della Croce. Ecco che evangelizzano soltanto quelli che non se ne accorgono; o quelli che, se se ne accorgono non vi attribuiscono alcuna importanza: il roveto ardente brucia senza consumarsi.

 

Nell’ambito dell’azione, del “fare”, che ci preoccupa così spesso, si porrà regolarmente la domanda: dove sono finiti gli altri, nella ricerca esclusiva di Dio? Sono proprio finiti in Dio! E lì, cessano di essere altri, parola che indica una separazione e si rivelano dei fratelli, perché vivono in Dio della stessa vita di cui viviamo noi: dal mondo materiale degli scambi tra individui, entriamo nel mondo spirituale della comunione di persone.

 

Allora, vado a visitare il mio malato in ospedale? No, se è un altro, si, se è mio fratello: nel qual caso questa visita ci renderà entrambi così felici, felici l’uno per l’altro, perché viviamo questa comunione. E il mazzo di fiori che gli porterò diventerà opera d’arte, celebrerà questa comunione: «La creazione attende così la rivelazione della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Concludiamo con san Francesco di Sales:

 

            È l’amore che dona la perfezione e il valore alle nostre opere. Vi dico molto di più: una persona che soffre il martirio per Dio con una oncia d’amore, merita molto, perché non potrebbe donare niente più che la sua vita; ma un’altra persona che sopporterà solo un buffetto con due once d’amore avrà molto più merito perché è la carità e l’amore che danno valore a tutto.

San Francesco di Sales, Veri trattenimenti spirituali

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