Quale futuro per il Cristianesimo?
Questa domanda ansiosa ha sostituito per noi quella dei discepoli il giorno dell’Ascensione: «È questo il tempo in cui ricostruirai il Regno?» (At 1,6).
La risposta di Gesù è un richiamo alla nostra responsabilità: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni» (At 1,8).
Il futuro, non solo del Cristianesimo ma del mondo intero, è legato alla nostra testimonianza da portare fino agli estremi confini della terra.
L’unico dei dieci lebbrosi guariti, che torna per ringraziare, è rimandato agli altri che ancora non sono lì con lui: «E gli altri nove?» gli chiede Gesù (Lc 17, 17).
La missione non è appannaggio di pochi eletti. È dovere di ogni credente, che è inviato a chi ancora non ha riconosciuto il Signore, fonte di salvezza per tutti.
Questo lavoro propone delle prospettive fondamentali per una testimonianza cristiana nel mondo d’oggi, sulla linea della recente enciclica «Redemptoris missio».
Non si tratta di uno studio nato a tavolino. Sono delle riflessioni che mi sono sorte spontaneamente durante i miei numerosi viaggi in varie parti del mondo, dove ho avuto modo di vedere le comunità cristiane più diverse e di accostare un grande numero di operatori pastorali. Sono rimasto impressionato dalla loro dedizione senza riserve, dal loro lavoro instancabile e dal loro zelo encomiabile, anche se in verità non sempre illuminato. Ciò che ho visto mi ha edificato e istruito, sia in positivo che in negativo.
Queste pagine vogliono essere un piccolo segno di riconoscenza per ciò che ho ricevuto da tutti quelli che ho incontrato. Mi sdebito facendo partecipi anche altri del dono ricevuto. È il miglior modo di ringraziare.
Di queste considerazioni non mi ritengo l’autore. Mi sono state offerte da coloro che mi hanno detto con la loro vita quanto qui ho cercato di trascrivere con parole. Non pretendo quindi di insegnare a nessuno; voglio solo comunicare ciò che ho appreso da molti.
Il tono, familiare e diretto, di una lettera mi sembrava il più adeguato.
L’attribuzione a Paolo, l’apostolo per antonomasia, era di dovere. Sila, o Silvano, al quale scrisse, fu discepolo della prima ora, compagno suo e di Pietro (1 Ts 1,1; 2 Ts 1, 1; 1 Pt 5,12; At 15,22 ss.; 17,4 ss.; 18,5). Queste parole, più che ad altri, le ritengo rivolte a me, che ho lo stesso nome. Sono una confessione ad alta voce.
Dopo l’introduzione col saluto iniziale, il rendimento di grazie e la dichiarazione del motivo, come di solito nelle lettere paoline, c’è una parte dogmatica e una parenetica. La prima sviluppa una teologia della missione sotto forma di commento a Mc 3, 14, utilizzando ampiamente i vari dati del Nuovo Testamento, soprattutto, ovviamente, di Paolo. La seconda tocca, con bonomia e con quel tanto di cattiveria necessaria – spero non di più – i principali problemi scottanti della missione, e riporta le regole fondamentali per discernere e scegliere.
La lettera conclude lasciando risuonare i temi dominanti, con un saluto finale.
Spero che, come fu utile per me richiamare alla memoria ciò di cui ho potuto far tesoro dell’esperienza altrui, non sarà dannoso per altri ascoltare questi ricordi che mi ripeto per non dimenticarli.
Penso anche che queste pagine possano offrire un contributo all’attuale dibattito sulla missione che occupa la Chiesa italiana. La quale, tra l’altro, non potrà ignorare a lungo di dover essa stessa affrontare al suo interno l’impresa di una rievangelizzazione.
Chi ritiene che la nostra epoca non abbia futuro, o perché ha adempiuto o perché ha tradito ogni promessa, dice che siamo alla fine del secondo millennio. Personalmente ritengo invece che siamo alle soglie del terzo millennio. Si annuncia certamente un mondo diverso, ignoto per le sue potenzialità, insieme allettanti e minacciose. L’ambiguità sta a noi dirimerla, indirizzandola verso il fine desiderato invece che verso la fine temuta. Per questo è dovere imprescindibile per noi, e affare di vitale importanza per questo mondo amato da Dio, far penetrare e radicare in esso la buona notizia capace di rigenerarlo dal di dentro e portarlo alla pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose (Ef 1, 23). Infatti da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen (Rm 11,36).
A chi con trepidazione ti chiede se è forse questo il momento del tuo ritorno, tu, Signore, rispondi inviandolo ai suoi fratelli più lontani (At 1,6-8). Alla tua prima venuta fosti da tutti disatteso. Ora attendi d’essere da tutti atteso e accolto, per la salvezza nostra che è la gioia tua. E ci chiedi di guardare con occhio di simpatia e di attenzione questo mondo. La tua opera infatti non è fare «qualcosa» che stia dentro o fuori di esso, ma fare di esso, nella sua concreta contraddittorietà, la storia della tua salvezza. Tu ci fai cogliere ne! rantolo di ciò che finisce il vagito di ciò che comincia. È un travaglio di morte e di vita, in cui udiamo il gemito della creatura nuova che nasce, a tua perfetta immagine, sotto il segno della croce e della gloria.
Tu inviti ciascuno di noi e tutta la Chiesa ad essere responsabili davanti al Padre dell’annuncio ai fratelli e davanti ai fratelli dell’annuncio del Padre comune. Fa’ che ascoltiamo la tua chiamata e che ci presentiamo al mondo allo stesso modo in cui tu, per primo, ti sei presentato – seguito in questo da quelli che tu hai inviato subito dopo di te a continuare la tua opera.
Così saremo, primizia dell’umanità intera, ciò che siamo: figli. Figli con te e come te.