Merton Thomas (1915 – 1968) – Pensieri nella solitudine

NOTA DELL’AUTORE

Coloro che sono stati abbastanza indulgenti da trovare in Semi di contemplazione e in Nessun uomo é un’isola qualche cosa che li abbia interessati, riusciranno forse a trarre un po’ di gioia da queste riflessioni, il merito delle quali, se si può parlare di qualche valore, sta nell’enunciare qua e là alcune delle cose che l’autore desiderava dire a se stesso e a coloro che si sentissero inclini a condividere le sue idee. Ciò vale specialmente per la seconda parte, quella sull’»Amore della solitudine». Chi conosce le pagine entusiasmanti di Max Picard nel Mondo del silenzio riconoscerà in parecchie di queste meditazioni l’ispirazione del filosofo svizzero.

PREFAZIONE

Le note racchiuse in queste pagine furono scritte nel 1953 e nel 1954, quando l’autore, per grazia di Dio e benevolenza dei Superiori, poté usufruire di oppor-tunità speciali per darsi alla solitudine e alla meditazione. Di qui il titolo. Ma ciò non implica che queste note siano soggettive o autobiografiche, e non vanno assolutamente intese come un racconto di avventure spirituali. Per quel che riguarda l’autore, non esiste alcuna avventura da descrivere, e se ve ne fosse stata, non la si sarebbe in ogni caso affidata alla carta. Si tratta semplicemente di pensieri sulla vita contemplativa, di intuizioni fondamentali che a quel tempo sembravano avere una importanza basilare.
Ma si rende qui necessaria una precisazione. È naturalissimo che delle intuizioni che all’autore sembrano delle più vitali non abbiano la medesima importanza per coloro che non hanno lo stesso genere di vocazione. Perciò in questo senso il libro è assolutamente personale. Talvolta le affermazioni sono di indole piuttosto generale, talaltra sono fatte en passant e rasentano i limiti del comune. Non si troverà mai che siano esoteriche, ma soprattutto queste riflessioni sulla solitudine dell’uomo di fronte a Dio, sul dialogo con Dio nel silenzio e sulle relazioni che intercorrono tra le solitudini personali di ciascuno di noi, sono per l’autore essenziali, dato il suo particolare genere di vita. Si può anche dire, tra parentesi, che il genere di vita da lui prescelto non è necessariamente l’ideale dell’Ordine religioso al quale egli appartiene. È, però, un ideale sostanzialmente monastico.
Non c’è bisogno di aggiungere che parecchia acqua è passata sotto il ponte personale di chi scrive da quando ha raccolto queste note, e le linee di pensiero che vi si trovano hanno proseguito negli anni successivi in direzioni varie ed insospettate.
In un’età nella quale il totalitarismo ha tentato in ogni modo di svalutare e degradare la persona umana, speriamo che sia giusto chiedere un po’ di attenzione per tutte e ciascuna delle reazioni dettate dalla sana ragione in favore della inalienabile solitudine dell’uomo e della sua libertà interiore. Non si può permettere che il chiasso omicida del nostro materialismo faccia tacere le voci libere che mai cesseranno dal parlare siano esse quelle dei santi cristiani, o dei saggi di Oriente come Lao Tse o Zen Masters, o voci di uomini come Thoreau o Martin Buber o Max Picard. Va benissimo che si insista sul fatto che l’uomo è un «animale sociale» — ciò è abbastanza ovvio. Ma non vi è nessuna giustificazione per farne un semplice ingranaggio di una macchina totalitaria — sia pur religiosa.
In realtà la società dipende, nel suo esistere, dalla inviolabile solitudine personale dei suoi membri. La società, per meritare questo nome, non deve essere costituita di numeri o di unità meccaniche, ma di persone. Essere una persona implica responsabilità e libertà, e l’una e l’altra presuppongono una certa solitudine interiore, un senso di integrità personale, un senso della propria realtà e della capacità individuale di darsi alla società — o di rifiutare un tale dono.
Quando gli uomini sono completamente sommersi in una massa di esseri umani senza personalità, sospinti qua e là da forze automatiche, perdono la loro vera umanità, l’integrità, l’attitudine ad amare, la capacità di prendere delle decisioni. Quando la società è costituita di uomini che non conoscono solitudine interiore, non può più essere cementata dall’amore, ed è perciò tenuta insieme da una autorità usurpatrice e violenta. Ma quando gli uomini vengono a viva forza privati di quella solitudine e libertà che sono a essi dovute, la società nella quale vivono imputridisce, marcisce nel servilismo, nel risentimento e nell’odio.
Nessuna misura di progresso tecnico basterà a sanare l’odio che rode, come cancro spirituale, gli elementi vitali della società materialistica. L’unica cura possibile è, e deve sempre essere, spirituale. Non si ricava gran frutto dal parlare agli uomini di Dio e dell’amore se non sono capaci di ascoltare. Le orecchie con le quali si ascolta il messaggio del Vangelo sono nascoste net cuore dell’uomo e non sono capaci di udire nulla se non posseggono una certa solitudine e silenzio interiore.
In altre parole, siccome la fede è questione di libertà e di capacità di autodeterminazione — il libero accogliere un dono di grazia liberamente dato — l’uomo non può dare il suo assenso a un messaggio spirituale finché ha cuore e mente schiavi dell’automatismo. E resterà sempre in una tale schiavitù finché sarà sommerso in una massa di altri automi, privi di individualità e di quella integrità a cui hanno diritto come persone.
Ciò che qui si dice della solitudine non è propriamente una ricetta per eremiti. Ha importanza per tutto il futuro dell’uomo e del suo mondo, ma in particolare, naturalmente, per il futuro della sua religione.

PARTE PRIMA
ASPETTI DELLA VITA SPIRITUALE

1.

Non esiste nella vita spirituale disastro più grande dell’essere immersi nella irrealtà, perché la vita viene in noi alimentata e mantenuta dallo s cambio vitale che intercorre tra noi e le realtà che ci circondano e ci sovrastano. Quando la nostra vita si nutre di irrealtà, le viene per forza a mancare l’alimento e quindi è costretta a morire. Non vi è miseria più grande del confondere questa sterile morte con la vera «morte», feconda e sacrificale, per la quale si entra nella vita.
La morte che ci fa entrare nella vita non è una fuga dalla realtà, ma un dono completo di sé che presuppone un darsi totalmente alla realtà. Comincia con la rinuncia a quella realtà illusoria che rivestono le cose create quando vengono considerate solo nella relazione che hanno con i nostri interessi personali.
Prima di potere avvertire che le cose create (soprattutto materiali) sono irreali, dobbiamo avere una netta visione della loro realtà. Perché la «irrealtà» delle cose materiali è soltanto relativa alla più grande realtà delle cose spirituali.
Incominciamo a rinunciare alle creature distaccandoti da esse e guardandole così come sono in sé. In tal modo ne penetriamo la realtà, l’essenza, la verità, che non si possono scoprire fino a che non ci allontaniamo dalle creature e non le osserviamo in modo da poterle vedere in prospettiva. E in prospettiva non si vedono finché non si smette di accarezzarle in grembo. Quando ce ne distacchiamo cominciamo ad apprezzarle nel loro vero valore e allora soltanto possiamo scorgervi Dio. Finché non Lo troviamo in esse non siamo in grado di avviarci sulla via della contemplazione oscura dove alla fine sapremo trovarle in Lui.
I Padri del Deserto pensavano che nella creazione il deserto avesse un grandissimo valore agli occhi di Dio proprio perché non ne aveva assolutamente nessuno agli occhi degli uomini. Era la landa che gli uomini non avrebbero mai potuto devastare perché non offriva loro nulla. Non vi era nulla che li attraesse, nulla da poter sfruttare. Era la terra nella quale il Popolo Eletto aveva vagato per quarant’anni, assistito esclusivamente da Dio. Se il Popolo Eletto avesse seguito la via diritta, avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa in qualche mese, ma era disegno di Dio che proprio nel deserto imparasse ad amarLo e che poi nel futuro riguardasse sempre quel tempo come quello dell’idillio della sua vita con Lui solo.
Il deserto fu creato perché fosse semplicemente quello che è, non per venire trasformato dagli uomini in qualche altra cosa. Così è anche per le montagne e per il mare. Il deserto è quindi la dimora ideale per chi non vuol essere niente altro che se stesso ossia una creatura solitaria e povera che non dipende da nessun altro che da Dio, che non ha nessun progetto grandioso capace di interporsi tra lei e il suo Creatore.
Questa è per lo meno la teoria, ma vi è un altro fattore che entra in gioco. Primo, il deserto è la terra della pazzia, secondo, è il rifugio del demonio cacciato «nel deserto dell’Alto Egitto» perché «vagasse per luoghi aridi». La sete fa impazzire l’uomo e il diavolo stesso è pazzo per una specie di sete della sua supremazia perduta — perché si è chiuso in essa ed ha escluso tutto il resto.
E così chi vaga nel deserto per essere se stesso deve badare a non impazzire e a non farsi schiavo di colui che vi dimora come in uno sterile paradiso di nullità e di rabbia.
Eppure oggi noi guardiamo ai deserti. Che cosa sono? La culla di una creazione nuova e terribile, la testa di ponte di quella potenza con cui l’uomo cerca di annientare ciò che Dio ha benedetto. Oggi, nel secolo delle più grandi conquiste tecniche dell’uomo, il deserto rientra infine nel suo dominio. L’uomo non ha più bisogno di Dio, e può vivere nel deserto con le sue risorse personali, vi può costruire le sue fantastiche, munite città ove rifugiarsi, fare esperimenti, darsi al vizio. Le città che alla notte balzano su dal deserto palpitanti di luci non sono più immagini della città di Dio, scendente dal cielo per illuminare il mondo con la sua visione di pace. E non sono neppure riproduzioni di quella grande torre di Babele che sorse un giorno nel deserto di Senaar, «perché l’uomo rendesse famoso il suo nome e arrivasse fino al cielo» (Gen 11,4).
Sono brillanti e sordidi ghigni del demonio, città del segreto, dove ognuno cerca di spiare il fratello, città nelle cui vene scorre il denaro come sangue artificiale e dal cui seno uscirà l’ultimo e più formidabile strumento di distruzione.
Possiamo assistere allo sviluppo di queste città e non fare nulla per rendere più puro il nostro cuore? Quando l’uomo e il suo denaro e le sue macchine vanno verso il deserto e vi pongono la loro dimora non già combattendo il demonio come fece Cristo ma prestando fede alle sue promesse sataniche di potenza e di benessere, adorando la sua sapienza angelica, allora è il deserto che dilaga dovunque. Per ogni dove vi è il deserto. Ovunque regna quella solitudine nella quale l’uomo deve far penitenza e combattere il nemico e purificare il suo cuore nella grazia di Dio.
Il deserto è la dimora della disperazione. E la disperazione oggi si trova dovunque. Non pensiamo che la nostra solitudine interiore consista nell’accettazione della sconfitta. Non si sfugge a nulla dando il nostro tacito assenso a una sconfitta. La disperazione è un abisso senza fondo. Non pensate di colmarlo consentendovi e cercando poi di dimenticare che vi avete consentito.
Ecco allora qual è il nostro deserto: vivere con la disperazione sempre davanti, ma non consentirvi. Calpestarla con la speranza che abbiamo nella Croce. Muoverle guerra incessantemente. Questa lotta è il nostro deserto. Se la condurremo con coraggio, ci troveremo a fianco Cristo. Se non sappiamo affrontarla, non lo troveremo mai.

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Luglio, 2024