Questo è il mio corpo (quinta parte)

«Questo è il mio corpo» (Fine)  (SEMI n. 238, Luglio-agosto 2021, La morte dell’amor proprio)

 

Nutrirsi è assorbire quello che si mangia e si beve per trasformarlo ed esserne trasformati, questo è assimilare ed essere assimilati. Scegliendo i gesti che dicono questa assimilazione nel momento in cui inizia la sua Passione, mettendoli in parallelo con la lavanda dei piedi, Gesù esprime questo amore “fino al culmine”, che è il suo per noi, e nello stesso tempo ci rende capaci di viverlo a nostra volta verso di lui e tra noi: «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi!».

Ma come si può mangiare solo per golosità, cioè per il solo piacere del mangiare così, non volendo questa trasformazione, la comunione liturgica non sarà nient’altro che un contatto esteriore tra Cristo e il fedele, da cui non si potrà attendere altro effetto che una pia emozione, in realtà molto superficiale. In altri termini: mancando la comunione spirituale, la comunione liturgica non porterà alcun frutto, come si può temere che accada per tante vite cristiane la cui pratica sacramentale non corrisponde, in realtà, a un dono incondizionato di se stessi a Cristo.

È questo il punto centrale alla domanda: cosa c’è sull’altare? Non qualcosa di miracoloso, ma Qualcuno, la cui presenza corporea rende possibile l’incontro tra due persone, quelle di Cristo e del suo discepolo, affinché vivano in una comunione più completa possibile, pur aspettando una unione ancora più intima che sarà quella dell’aldilà.

 

 

Il segreto del curato d’Ars o che vuol dire “evangelizzare”?

 

Con questo nuovo capitolo del nostro catechismo spirituale, vorremmo riflettere sul fenomeno seguente: prendete un sermone del santo curato d’Ars; quando lo pronuncia lui, cento persone si convertono; lo stesso sermone pronunciato da voi, non ne converte dieci. Ecco la domanda: dove si nasconde la molla della conversione? O se si preferisce: dove si nasconde l’efficacia del curato d’Ars? Ѐ a questa domanda che si tenterà di rispondere in questo mese.

Precisiamo che parlando di “conversione”, parliamo della formazione di un atto di fede nella persona di Gesù, che porterà a voler vivere il Vangelo. Infatti, la fede è un atteggiamento pratico, la cui adesione intellettuale all’enunciato del Credo non è che un aspetto limitato. Cosa allora provocherà questo atto di fede?

Poiché il testo dei due sermoni è uguale, il segreto del curato d’Ars non è dunque in quel che dice. Sarà nel modo in cui lo dice? Ma era un cattivo oratore e, in più, non aveva microfono! Bisogna che cerchiamo altrove. Facciamo una deviazione al giardinetto pubblico vicino, dove due innamorati si dicono una frase di una straordinaria banalità: «Ti amo!». Attenendoci al contenuto del messaggio, non c’è niente di così semplice, di così universalmente detto e ripetuto in tutte le lingue del mondo. Perfettamente insignificanti per il passante che ascolterebbe il dialogo, quelle parole divengono assolutamente uniche, insostituibili per quei due innamorati e saranno determinanti per tutta la loro vita futura. L’importante non è dunque comprendere quello che è detto, ma comprendere chi parla, entrare in comunione con lui. Riassumendo, prendere la parola sia per il sermone domenicale sia per una conversazione tra innamorati, è porre un atto di comunione, ancora prima di essere scambio di notizie, anche se pur necessario scambiarsi delle notizie quando si prende la parola. Questo il momento di ricordarci dei nostri primi capitoli: la felicità è l’unione, l’unione a Dio e la comunione con i nostri fratelli (cfr. Semi n. 221), e ciò che dona la felicità, è quello che noi abbiamo individuato essere il valore aggiunto (cfr. Semi 225-226). Tra il curato d’Ars e un predicatore normale, tutta la differenza è in questo valore aggiunto.

Questo è il momento anche di ricordarci che questo valore aggiunto arriva da altrove, viene dall’alto, è dato gratuitamente a colui che lo riceve, ma questi può liberarlo o trattenerlo in proporzione alla propria volontà di accettare di esserne trasformato. Ѐ stato evidenziato a proposito del pittore geniale: egli non è estraneo al quadro, lo partorisce dolorosamente attraverso tutte le rinunce a ciò che non è conforme a ciò che lui vede. Il suo lavoro è quello di entrare sempre più nella verità che percepisce, e in ciò questo valore aggiunto si rivela nella sua carne, vi si incarna, e il dipinto non è che il risultato di questa incarnazione. Applichiamo questo al curato d’Ars:

 

Ci si uccide a forza di studiare per fare bei sermoni, tuttavia questo non produce quasi alcun frutto. Perché questo? Il fatto è che la predicazione è una funzione sovrannaturale, come pure la salvezza delle anime, che è il fine che si cerca, ed è necessario che lo strumento sia proporzionato a questo fine. Ora, non è la scienza, né l’eloquenza, né altri talenti umani, ma la santità di vita e l’unione con Dio, che ci rendono strumenti idonei a procurare la salvezza delle anime. La maggior parte dei predicatori ha abbastanza scienza, ma non ha abbastanza devozione né santità.

Louis Lallemant (1588-1635), Dottrina spirituale

 

«La predicazione è una funzione sovrannaturale», perché la grazia non si decreta, cioè è Dio stesso che viene a vivere la nostra umanità, così che vivere questa grazia è il solo modo per rivelarla, senza che incontri alcuna resistenza:

 

Unita alla Sapienza divina, l’anima attinge continuamente a questa sorgente viva, l’altissima e sublime Dottrina dello Spirito. Ella ha in sé, Gesù Cristo, Sole della vera Sapienza e questa unione la rende tutta spirituale, atta a discernere tutte le cose in modo da non predicare affatto quello che vuole e che le sembra bello e giusto secondo il lume naturale, ma solo la dottrina di Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso e risorto.  

Padre Séverin Rubéric (XVII sec.), La Via d’Amore

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