Santità e mistica (prima parte)

Santità e mistica (Segue)  (SEMI n. 229, Ottobre 2020, L’orazione)

 

Possiamo fare qualcosa per questa presa di consapevolezza della presenza di Dio che qualifica la contemplazione? Tutti gli autori sarebbero d’accordo con Guglielmo di Saint-Thierry:

 

            Questo modo di pensare Dio non è nelle possibilità di colui che pensa, ma nel beneplacito di colui che lo dona, fino a quando, cioè, lo Spirito Santo che soffia dove vuole, quando vuole e come vuole, e in chi vuole, non lo infonde.

Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera ai Fratelli di Mont-Dieu, III, I

 

Il fenomeno della Rivelazione

Lucie Christine è passata dalla percezione nella fede di un mistero nascosto, a quella di un mistero rivelato. Certo, resta mistero, perché la fede non è assolutamente diminuita, ma in questa esperienza, quello che non si vede, non diviene meno certo di tutto quello che si vede: «Si scopre, vissuto dal mistico nella chiarezza di una evidenza, quello che ciascuno di noi sa tramite la fede e di cui vive» (G. M. Garonne).

Una immagine aiuta a comprendere questo fenomeno che è quello della Rivelazione. Nella purezza del vuoto intersiderale, il sole brilla, ma non illumina niente: è incontrando l’atmosfera che diviene visibile. «Dio è luce» ci dice S. Giovanni, ma ci dice anche: «Dio nessuno l’ha mai visto!» Per vederlo, per rivelarsi, bisogna che incontri gli strati densi della nostra atmosfera mentale, bisogna che s’incarni: «Il Figlio unico, che è nel seno del Padre, lui l’ha fatto conoscere» (Gv 1,18). Questi strati densi sono tutta la nostra psiche, con le sue componenti di memoria, di intelligenza, di volontà, di immaginazione, modellata dalla propria storia, essa stessa segnata dal peccato.

Dio brilla alla sommità della nostra psiche, nel punto in cui incontra la dimensione spirituale, per niente cieca dove «la nostra vita è nascosta in Dio con Cristo» (Col 3,3) e dove la ragione nasce dalla fede. Ma attraverso l’incarnazione, questo Dio che ci tocca dall’alto, si fa sentire, toccare, capire, «da chi vuole, quando vuole, dove vuole». Questa rifrazione nella carne, ecco l’esperienza contemplativa, che porta su «quello che abbiamo visto con i nostri occhi, quello che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato del Verbo della vita» (I Gv 1,1). Se la santità è un fatto di divinizzazione, la contemplazione è fondamentalmente un fatto di incarnazione, una venuta di Cristo nella carne, un fatto di Rivelazione.

 

Santità e/o contemplazione

La contemplazione, e più ancora la mistica- si usa abitualmente la parola mistica” per indicare un grado elevato della contemplazione – è spesso considerata pericolosa. Dio è padrone dei suoi doni, ci ha ricordato Guglielmo di Saint-Thierry, e poiché vuole, in ogni modo, che tutti gli uomini possano essere salvati, bisogna credere che quelli che egli conduce sulla via contemplativa ricevono le grazie necessarie per camminarvi santamente. E di fatto, si constata che i mistici sono particolarmente rappresentati nell’elenco dei santi. Perché, allora, costituiscono solo una piccola parte dell’umanità? Perché l’alpinista ha meno diritto all’errore di colui che passeggia su un cammino pianeggiante: avanzando su di un cammino scosceso, il contemplativo è obbligato a seguire Cristo più da vicino. Laddove colui che passeggia si accontenterà di una mappa a grande scala e potrà senza rischi scostarsi dalla strada, l’alpinista dovrà scalare le pareti rocciose con grande precisione. Ciò lo obbligherà a vivere una santità esemplare, che lo porterà alla canonizzazione servendo così da esempio particolarmente illuminante per i suoi fratelli che camminano.

La mappa di colui che cammina, sono i comandamenti di Dio; la mappa dell’alpinista sono i consigli evangelici. L’osservanza dei comandamenti è richiesta ad entrambi, ma non è sufficiente per l’alpinista. Quando il passeggiatore sentirà «Tu non ruberai», l’alpinista spirituale percepirà un invito più radicale: «Beati i puri di cuore!». E ciò che aiuta colui che cammina, a vivere – per esempio i fiori che raccoglie per decorare la sua bella casa – non farebbe altro che ingombrare l’alpinista impedendogli di vivere. Questo è il senso del suo voto di povertà, che ufficializza un modo di vivere libero da bagagli superflui.

Ma sottolineiamo che ogni viatore nasconde un alpinista. Così anche se non si sente attratto dall’Himalaya, man mano che avanzerà, il camminatore scoprirà la bellezza della montagna, e si libererà così delle cose avvertite ormai come superflue, per viaggiare più leggero. Si scoprirà capace di prestazioni che non immaginava. Così il cristiano fedele vede le nuove esigenze del suo battesimo man mano che le vive: rinunce non percepite come necessarie in un primo momento, s’impongono adesso come una condizione per continuare a seguire Cristo. In altre parole, non è per virtù che rinuncerà a decorare la sua bella casa, ma per preferenza: è questa scelta che trasforma, piano piano, il passeggiatore in alpinista. Questa è la molla di tutto il progresso spirituale. Questo fino al momento – che è quello della sua uscita dalla vita terrena- in cui potrà dire con Cristo: «Nessuno prende la mia vita, ma sono io che te la dono».

Ci possiamo infine chiedere se colui che prova questa nuova chiamata è obbligato a rispondervi. Si e no. No, perché sente benissimo che resta libero e che non vi è altra punizione per chi rifiuta l’ascensione, se non quella di privarsi della vista della sommità; ma si, perché colui che ha intravisto la vetta non può ritornare a passeggiare senza esserne molto triste come il giovane ricco del Vangelo:

 

Si rischia di perdere tutto chiudendo l’orecchio a questa voce; e anche se si finisce per arrivare all’ultima meta, Dio solo sa il cammino che ci si prepara. Si camminerà goffamente per tutta la vita: si direbbe che la grazia non arriva più che obliquamente in queste anime e che Dio non vi opera, per così dire, che per forza. Niente va dritto per esse; niente è agevole, eccetto forse far meno bene o persino far male. […] Si, queste anime saranno salvate ma, come scrive san Paolo, «passando per il fuoco».

Charles Gay (1815-1892), Sulla vita e virtù cristiane, pagg. 81-84

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