Sono io, non abbiate paura (prima parte)

«Sono io, non abbiate paura» (SEMI n. 247, Maggio 2022, L’equilibrio contemplativo)

 

  1. L’infelicità è la paura

 

Immaginiamo per un istante che la malattia non ci faccia più paura, che l’incidente non ci faccia più paura, che il vicino non ci faccia più paura, che il poliziotto non ci faccia più paura; in breve, che la vita non ci faccia più paura: niente sarà cambiato, ma avremo ritrovato il paradiso perduto.

Guardiamo più da vicino. Un amico raccontava la disavventura seguente: in occasione di una visita medica per una malattia che credeva benigna, il medico gli annunciò che le cose erano ben più gravi di quello che pensava e che i suoi giorni erano contati. Tutto d’un colpo, il mondo gli crollò addosso e la sua reazione fu un’angoscia atroce; la peggiore giornata della sua vita! Ma ecco che degli esami più approfonditi rivelarono che il medico si era sbagliato e che il male sarebbe guarito in alcune settimane. L’angoscia del malato lasciò il posto istantaneamente a un sollievo paradisiaco, come se fosse già guarito! Da questo episodio traiamo una prima conclusione: non è la malattia che rende infelice, poiché in realtà, non esisteva; non è la salute che rende felici, poiché in realtà, quel malato non era ancora completamente guarito. Dove si collocava allora la sua infelicità? Nell’idea che si faceva della malattia. L’infelicità non è dunque nelle cose, ma nell’idea che ci facciamo delle cose o, più precisamente, nell’immaginazione.

Guardiamo ancora più da vicino. Tutti abbiamo fatto l’esperienza seguente: alla fine di una passeggiata nel bosco, ecco che al calar del sole non ricordiamo più bene dove abbiamo lasciato l’auto. Una leggera angoscia assale…cerchiamo una strada, poi un’altra, a sinistra, a destra, e a forza di girare non capiamo più dove siamo! L’angoscia cresce, scende la notte, acceleriamo l’andatura, pensiamo a quelli che cominceranno a preoccuparsi a casa, ci rimproveriamo di non aver preso la cartina, tendiamo l’orecchio sperando nell’aiuto di un ultimo passeggiatore attardatosi…i minuti passano, terribili! E all’improvviso! Allo svincolo di un sentiero, ecco che la macchina appare: era là, a meno di cento metri! Istante meraviglioso, paradiso ritrovato! Anche in questo caso, quello che ci rendeva infelici non consisteva in niente. Questa volta, non accuseremo la malattia, né alcun disordine: Non sono le cose che ci turbano, ma noi ci turbiamo per esse, osserva finemente Malaval (cfr. Semi n. 200). Né il malato, né chi passeggia solitario erano in una situazione drammatica; mancava loro di vivere la realtà, mentre abitavano l’immaginario. Malaval ci mostra in un sol colpo il rimedio:

 

I nostri movimenti non ci trascinerebbero mai oltre la ragione, se guardassimo tutte le cose razionalmente, cioè con la luce di Dio.

François Malaval, Pratica facile della contemplazione

 

 

“Oltre la ragione…”: la parola ragione non viene dalla filosofia, ma dalla vita militare. La ratio latina, in effetti, designa la razione del rancio del legionario romano: la giusta quantità, al momento opportuno e al posto opportuno.

“Guardare tutte le cose razionalmente” è vedere le cose così come esse sono: “nella luce di Dio”, cioè come Dio le vede e le crea. Non c’è bisogno di visioni straordinarie per questo: facendoci a «sua immagine e somiglianza», Dio ci ha dotato di questa luce, che ci permette di vivere il reale o, se lo si preferisce, razionalmente, felicemente.

 

 

  1. L’origine della irragionevolezza

 

Questa luce non è sparita, ma si è fortemente velata, a causa di quello che chiamiamo tradizionalmente “peccato originale”; ma per il momento, continuiamo a riflettere sull’angoscia del passeggiatore e lo vedremo vittima, se non autore, di quel velo del peccato. Cosa lo rendeva infelice, in effetti, dato che la realtà della situazione non era in discussione, ma solamente l’idea che egli se ne faceva? Qualcosa in lui gridava il rifiuto di questa realtà e voleva ad ogni costo ciò che non era; egli si poneva allora in concorrenza con Colui che fa levare il giorno e scendere la notte, sperimentando così l’orgoglio del peccato originale.

Può sembrare strano di introdurre qui il peccato, poiché né il malato, né il passeggiatore hanno fatto niente di male. Certo, ma essi vivevano il divorzio tra la loro volontà e quella di Dio, divorzio che trasforma le nostre giornate in una perpetua negoziazione impaurita, con la Provvidenza, che ci fa valutare gli eventi in “favorevoli” o “sfavorevoli”, come se la Provvidenza potesse volerci male, e ci fa chiedere nelle nostre preghiere la guarigione dei malati e la riuscita dei nostri esami, come se la volontà di Dio non fosse, in ogni modo, infinitamente buona.

Lasciamo agli esegeti il compito di esaminare come questo divorzio sia nato, e quale ne fu l’avvenimento scatenante: ci basti qui constatare che siamo portatori di questa separazione da che esistiamo, ed è questa che ci rende infelici. Questo indica già che per reintegrare il paradiso perduto, non si tratta di cambiare le cose, ma di mettere fine a questo divorzio. Intanto, il libro della Genesi ci mostra la paura come conseguenza fondamentale del peccato: appena Adamo ed Eva diedero un morso al frutto proibito, ne fecero l’esperienza non appena Dio si avvicinò: «Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura, perché io sono nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3,10). Dal quel momento, le benedizioni divennero maledizioni, il lavoro divenne ingrato, il matrimonio un conflitto, e la maternità una prova. Tutto questo «perché sono nudo…»; ed è ciò che pressappoco prova il malato o il passeggiatore che si scopre senza protezione in un mondo ormai percepito come ostile…eppure il mondo non è cambiato!

Il mondo non è cambiato, ma la diffidenza ha rimpiazzato la fiducia, ed è quello che ha innescato tutto, a monte del peccato propriamente detto:

 

La donna come avrebbe potuto credere alle parole del serpente se già il suo spirito non fosse stato penetrato da questo amore per il proprio potere e da una certa e orgogliosa presunzione, che fu rivelata da questa tentazione?

Sant’Agostino, Commento alla Genesi, XI, 30

 

(Segue)

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